L’analisi della situazione
Le recenti rivendicazioni autonomiste e indipendentiste in Catalonia hanno rimesso al centro del dibattito pubblico il rapporto tra Stati e comunità locali.
Ci sono infatti diversi movimenti autonomisti e indipendentisti in diversi stati europei. Anche se questa non è una novità di questi ultimi anni, anzi la maggior parte dei soggetti politici attivi in tal senso hanno diversi decenni di attività alle spalle. Paesi Baschi, Bretagna, Scozia, Fiandre, Galizia, Corsica, Ulster, Occitania sono solo i principali e più noti esempi in Europa. In Italia pulsioni secessioniste esistono nel Nord, in Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Piemonte, Sardegna, Sicilia e nell’ex Regno delle Due Sicilie – un elenco più dettagliato può essere trovato su wikipedia.
Storia, comportamento e dinamiche di questi movimenti sono estremamente ed è difficile trovare un origine comune: gli indipendentisti scozzesi sono per lo più di tendenza socialdemocratica e sono fortemente europeisti, mentre quelli fiamminghi sono per lo più schierati a destra e anti-europeisti.
Alcuni hanno ragioni storiche in quanto si rifanno a Stati già esistenti in passato. Altri per lo più culturali e altri ancora principalmente economiche. L’esempio più calzante è quello della Lega Nord secessionista di qualche anno fa, la cui base ideologica era sostanzialmente limitata a “Roma Ladrona, Nord libero”.
Le ragioni “locali”
Le ragioni che portano a un crescente successo alcuni di questi movimenti sono per lo più principalmente nazionali. La “miccia” catalana è stata la bocciatura della Corte Suprema spagnola del nuovo Statuto catalano. Così come i referendum prossimi venturi lombardi e veneti hanno ragioni quasi esclusivamente locali e nazionali.
Alcuni hanno colto tra le ragioni di questa fiammata separatista una responsabilità UE. Ma si è completamente fuori strada. Pur piena di difetti, politicamente moscia, grigia e priva di appeal, l’Unione non c’entra molto, se non indirettamente. L’ente più sotto scacco è infatti il classico stato nazionale europeo, che ha sempre più problemi di identità, ruolo ed efficacia verso i propri cittadini, le proprie istituzioni locali e nei rapporti internazionali.
L’Europa unita è nata per condividere diritti e risorse ed evitare che gli Stati europei si facciano vicendevolmente la guerra ogni paio di decenni. Pertanto non la si può in appropriatamente chiamare in causa quando uno Stato membro ha un problema con una sua istituzione interna.
Cercare quindi troppe ragioni generali per fenomeni di origine locale è sbagliato. Da alcuni secoli esistono vari e differenti movimenti autonomisti e separatisti in tutta Europa, ma con le libertà e i diritti civili che sono sempre più garantiti in ogni territorio dell’Unione sono movimenti che stanno perdendo senso. E’ invece un dibattito ancora aperto quali debbano essere poteri, risorse e responsabilità da affidare ai differenti livelli di governo europeo, nazionale, regionale, provinciale e locale. Le ricette si sprecano e ci sono organizzazioni molto diverse anche all’interno dello stesso Stato. Ma non si è ancora arrivati né a un modello ideale, né a una organizzazione “condivisa”.
La politica
Dal punto di vista politico invece è necessario porsi qualche domanda. La concessione di maggiore o minore autonomia non è una risposta ai problemi principali della società europea (crisi, mancanza di sicurezza, globalizzazione, ecc.), ma il semplice fatto che sia una proposta di cambiamento la rende apprezzabile da molti. Il fatto che gran parte dell’orizzonte politico proponga soluzioni deliranti o controproducenti non può però costringere la sinistra semplicemente a “difendere l’esistente”. Essere progressista è sostenere il cambiamento, altrimenti si è conservatori, e in generale non credo che siamo né adatti né portati ad esserlo.